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Rassegna Stampa

Rivadossi, l’etica del legno

di Vittorio Sgarbi

Se molti dei suoi mobili fossero interpretati come modelli di legno da trasporre in grande scala, cosa che si potrebbe fare benissimo, in linea con una vecchia e nobile tradizione, Giuseppe Rivadossi sarebbe uno dei maggiori architetti dei nostri tempi. Un razionalista, indubbiamente, un emulo di Le Corbusier, un “modularista” sistematico e convinto, ma in una direzione precocemente innovativa, ben più convincente e motivata di quanto non possano essere i “meierismi”, i “gregottismi” o i “renzopianismi” più convenzionali, da post-modernista prima ancora che certe categorie critiche venissero prese in considerazione.

Pensate a opere, perché di tali si tratta, come Grande madia intagliata (1978), nella sua struttura a alveare e nell’innovativa forma a siluro, in recupero di certi archetipi proto-razionalisti, più industriali che architettonici, dei primi decenni del Novecento. Pensate a una sua trasposizione in formato di edificio, con gli opportuni adattamenti (gli sportelli, logicamente, andrebbero pensati in modo diverso), con l’inevitabile perdita di calore, non solo fisico, che il passaggio dal legno al cemento o all’acciaio comporterebbe; la Swiss Re Tower di Londra (progetto di Norman Foster) e la Torre Agbar di Barcellona (Jean Nouvel), di molto posteriori rispetto alla creazione di Rivadossi, vi apparirerebbero improvvisamente per quello che sono, suppostoni scialbi e troppo poco sofisticati per meritare la visibilità arrogante che assumono nel contesto delle rispettive città. Non è una semplice questione di maggiore o minore attrattiva visiva: è dal punto di vista architettonico che la Grande madia vincerebbe il confronto, come un archetipo – motivo carissimo a Rivadossi – che riprendesse il sopravvento su sue applicazioni piuttosto banali, in parte degeneri, per la maggiore varietà e organicità dell’impianto, per la sua più elevata capacità di integrazione con il circostante, grazie a una struttura che non si chiude in sé stessa come un monolite, ma si fa perforare dalla luce e permette all’ombra di annidarsi nelle sue cavità, facendosi metro del mutare del tempo nella sua continua, ordinaria scansione quotidiana.

Di fronte alla serissima serialità dei Menhir di Rivadossi, sapiente rilettura del Cubismo scultoreo in chiave strutturalista, il decostruttivismo di Frank O. Gehry nella Fred and Ginger di Praga o nella Torre di Hannover sembrerebbe una gigionata allo stato puro, divertissement narciso che sta all’architettura come i giochi di prestigio alle scienze matematiche. Gehry scherza, Rivadossi fa sul serio, al primo dovrebbero essere affidate cose futili, al secondo cose ben più impegnative. E infatti il primo fa giocattoli giganteschi in cemento, vetro e acciaio, il secondo fa mobili che portano monumenti in casa. Eppure la Swiss Re Tower, la Torre Agbar, la Fred and Ginger e la Gerhy Tower di Hannover sono lodate come geniali capolavori dell’architettura contemporanea, da parte di chi, poveri loro, nella maggioranza dei casi non sa nemmeno chi è Giuseppe Rivadossi, e quando lo sa lo considera un mobiliere artigiano. Non senza sbagliare, come diremo meglio più avanti, perché non in modo migliore si potrebbe definire la professione di Rivadossi, ma in un’accezione che nell’orizzonte mentale degli “architettonisti”, fanatici della disciplina, malati di intellettualismo gratuito e a buon mercato, finisce per essere una diminutio. Rivadossi è uomo manuale, di officina; molti maestri dell’architettura contemporanea, presunti o reali che siano, hanno le mani senza calli, i cantieri li vedono poco, la calce non sanno nemmeno come è fatta, e se ne vantano. Gli studi professionali sono i loro veri campi d’azione, quello che c’è al di fuori dei loro muri è un universo che può rimanere anche sconosciuto, come spesso accade. Semmai, gli “architettonisti” potrebbero considerare Rivadossi un designer, ma sempre tenendo le debite distanze. Vuoi mettere l’auro distacco dal mondo materiale di un Alessandro Mendini, divino, con il volgare olio di gomito di Rivadossi? Vuoi mettere la dialettica pindarica da piazzista di lusso, dall’ermetismo trombone, citazionista in modo maniacale, con l’arida logica cartesiana del lavoro manuale?

Forse Rivadossi dovrebbe citare di più e a vanvera per meritarsi univoca considerazione anche presso certi ambienti. Se però penso alle sue Arche (1969), dico che le parole sono superflue. Nelle simmetrie anomale e negli incastri ortogonali di volumi delle Arche, vedo la più intelligente e progredita lettura di Le Corbusier, fra Chandighar e Ronchamp, che mai l’architettura italiana abbia concepito fino a quegli anni, più avanzata di quanto non sia, per esempio, il S.Giovanni dell’Autostrada di Michelucci. Se le periferie italiane fossero state riempite di quartieri formati da combinazioni modulari di Arche, di limitate dimensioni, a gruppi discontinui, forse non ci metteremmo a piangere come facciamo davanti allo ZEN di Palermo o al “serpentone” rettilineo di Corviale, anche se sarebbe ingiusto ascrivere le colpe dei loro fallimenti ai soli architetti. Se proprio li si deve fare, piuttosto che vedere i soliti moloch insulsi, piacerebbe vedere grattacieli nella vecchia Fiera di Milano congegnati come la Custodia Aurina, la Custodia Altamira o la Madia Catalana, con gli elementi mobili a vivacizzare l’implacabile rigore strutturale, nel qual caso si arriverebbe probabilmente dove Aldo Rossi sarebbe voluto arrivare, ma senza mai riuscirvi, per insufficiente robustezza d’ispirazione. Se proprio li si deve fare, piacerebbe vedere monumenti eleganti e intelligenti come la Custodia Lombarda o la Scrivania Dimora, ottimi anche in legno, che non avrebbero rivali in un settore fin troppo disastrato.

Ma Giuseppe Rivadossi non vuole essere giudicato un architetto, né che le sue opere siano omologate al design architettonico. Non per eccesso di modestia o superbia, ma per onestà, innanzitutto con sé stesso. E’ indubbio che l’approccio al lavoro di Rivadossi sia analogo a quello degli architetti, da cui tutte le corrispondenze fra il suo e il loro mestiere. “Fin dai primi anni della mia attività ho tralasciato ogni superficiale ornamento per mirare all’essenzialità della struttura, riscoprendo così gli aspetti fondamentali del costruire. Tutto il costruire con coerenza e piacere diventa linguaggio, comunicazione vera e felice.” Non sono frasi di Adolph Loos, anche se potrebbero sembrarlo, ma di Rivadossi. Se la pietra di paragone fosse l’architettura, Loos e Rivadossi farebbero due mestieri differenti. Se invece è la costruzione, nozione che fa da categoria alla specie architettura, Loos e Rivadossi fanno stesso mestiere, secondo una continuità di forma mentis del tutto evidente. Non è l’architettura, ma l’etica funzionale, utilitaristica del costruire, il suo mettersi in relazione organica con la materia, e attraverso di essa con la natura e con il mondo dell’uomo, la base di partenza dell’arte di Rivadossi. E’ architettonica l’organizzazione del costruire, il procedere secondo un sistema progettuale, razionale, applicando metodiche che assicurano un certo tipo di risultato. Ma allo stesso modo lavorerebbe un liutaio, professione artigianale che per altri versi è molto vicina a quella di Rivadossi. Come un liutaio, Rivadossi non si limita a operare sul legno per ottenerne oggetti particolari: deve farlo “cantare”, cavare da esso proprietà non sempre manifeste a tutti ed esaltarle fino a farle diventare peculiari.

Non basterebbero, però, le analogie con la liuteria a farci comprendere il vero punctum dell’arte di Rivadossi, la grande intelligenza della sua proposta, non solo dal punto di vista estetico. L’originalità di Rivadossi consiste nell’avere trovato una perfetta consonanza fra la tradizione e il presente più innovativo, ovvero fra la l’etica della manualità artigianale e il mutato senso della forma, artistica e no, determinato dall’affermazione della produzione industriale. Rivadossi è ancora convinto della necessità umanistica di un rapporto armonico fra uomo e natura, l’unico in grado di farci vivere nella consapevolezza di valori spirituali profondi. Contesta la superficialità del mondo contemporaneo, la banalità delle mode, il consumismo, i falsi miti dei mass media. Un uomo d’altri di tempi, si potrebbe dire, se si mettesse a fare i mobili come Maggiolini. Ma Rivadossi non cade nella trappola: Maggiolini è un modello di etica e di sapienza artigianale, non nel modo di concepire la forma. Se da una parte rinnega le degenerazioni della modernità, dall’altra Rivadossi non può fare a meno di prendere atto delle novità che ha introdotto. Non farlo vorrebbe dire stare fuori dal presente, chiudersi in una dimensione di romantica, reazionaria nostalgia del passato, continuare a fare come se nulla fosse cambiato.

Così Rivadossi ha fondato una nuova forma del legno lavorato artigianalmente, impostata su alcuni dei criteri introdotti dalla produzione industriale, come la razionalità geometrica, la modularità, la serialità, cosa che ci porta ad accostarlo istintivamente ai designer. Uno degli aspetti più straordinari dei mobili di Rivadossi è che a primo sguardo sembrerebbero quanto di più tipico possa sfornare la civiltà industriale: tutto è preciso, regolare, sistematico, come una macchina riuscirebbe a fare meglio di un uomo. Poi, a distanza ravvicinata, a contatto di mano, quei mobili rivelano un’altra natura: sono frutto di lavoro umano, presentano minime irregolarità, tagli e levigature troppo sofisticate per derivare dall’automatica precisione di una macchina. La senti, l’impronta del lavoro umano, la sua virtuosistica, formidabile perizia, l’avverti nel calore del legno che ti trasmette anche quello di chi lo ha pensato e elaborato. Dietro quel mobile c’è un artigiano, uno scultore assolutamente capace di realizzare anche opere d’arte più tradizionali, dotate di una brillantissima solidità espressiva, e dentro l’artigiano-scultore un essere pensante, e dentro l’essere pensante un preciso modo di concepire la forma, la vita, il mondo, come un cassetto che ne contenesse un altro, non necessariamente più piccolo del precedente. Avverti che quel mobile non è un semplice oggetto, ma un’opera irripetibile, esattamente come una scultura, dotata di un’aura spirituale di cui il legno si è totalmente imbevuto, diretta emanazione di chi quell’opera l’ha ideata e costruita.

Con enorme coraggio, Rivadossi ha accettato la sfida con la macchina, tipica dell’epoca moderna, sul piano più favorevole ad essa, senza creare cose che fossero incompatibili con la produzione seriale, come fanno, più comodamente, la maggioranza degli artisti. L’ha vinta, e in modo inequivocabile, puntando acutamente sull’unico valore aggiunto che gli avrebbe concesso di spuntarla, il fattore-uomo, la spiritualità che riversa nel lavoro materiale. È in fondo il senso dell’arte, e forse anche quello della vita.

Vittorio Sgarbi